Il Bicentenario di Gonçalves Dias: il mio Brasile brasiliano.
Fred Góes
TESTO IN ITALIANO   (Texto em português)

 Il 10 agosto 2023 Gonçalves Dias ricorrono  200 anni dalla nascita. Sembra che il Brasile non abbia bisogno di ricordare questo poeta che ha plasmato il nostro volto, ha fatto germogliare la nostra identità indipendente, ci ha dato appartenenza, ci ha insegnato a sentire la Saudade e ad essere orgogliosi di essere brasiliani. Ultimamente camminiamo con più nostalgia che orgoglio. Ciò è pessimo. Perciò questo è un buon momento per ripensare chi siamo 200 anni dopo, chiedendoci: quanti sono i nostri volti? Non abbiamo bisogno di vestirci con la bandiera. Anche perché le “fantasie” presuppongono la diversità e la creatività individuale.

Tutto uguale è per un gruppo, un blocco o un'ala di carnevale, il contrario di questo si chiama uniforme. Conta quando si tratta di una squadra. Tutti uguali. Siamo diversi in questo paese più grande della nostra misura. Un continente. Una ridondanza immensa, ma è impossibile non ricorrere a questa parola, un continente. Noi siamo i tanti dei tanti nel Pindorama. I nostri occhi non riescono a intravedere la lontananza, dove il cielo incontra la terra e la terra incontra il mare, dove la linea dell'orizzonte passa sotto la cintura dell'equatore. La foresta, la più grande del mondo, dove l'immensità incontra la dimensione dell'eccesso. Chi siamo noi?

È quasi impossibile parlare del Brasile senza vantare e vantarsi. È difficile essere brasiliani, è molto difficile perché la nostra singolarità è plurale. Siamo meticci per eccellenza. Il portoghese che parliamo ci rivela, dice chi siamo con molteplici accenti. Vantarsi è un'azione che, nella nostra lingua, il portoghese brasiliano, è stata associata al pensiero conservatore, ortodosso e totalitario, soprattutto nel XX secolo, non senza motivo. Preferisco liberare il verbo dalle sue catene, intendendolo nel senso di rendere (qualcuno) o sentirsi orgoglioso o lusingato. Disprezzo il senso di “mostrarsi vanaglorioso o presuntuoso; vantarsi". Sono orgoglioso di appartenere al Brasile incorniciato da Gonçalves Dias. È sorprendente come riesca, con due eptasillabi, due quartine più grandi, a darci appartenenza, a farci identificare come brasiliani. Con solo un paio di indici, un albero e il canto di un uccello, inventa la brasilianità, e la terra di cui sente saudade.
La mia terra ha le palme
dove canta il sabiá
Gli uccelli che cinguettano qui
non cinguettano come lì

 
Gonçalves Dias è nato a Caxias, nell'interno del Maranhão, più vicino a Teresina che a São Luís, nell'entroterra di un paese che aveva ottenuto l'indipendenza l'anno precedente. Un paese la cui identità era appena agli inizi. Tutto ciò che sapevamo di noi stessi e del mondo era ciò che il colonizzatore vedeva e diceva. Non avevamo voce, neppure lo specchio rifletteva il nostro volto.

La vita urbana era precaria sulla costa. Nella patria del poeta, gli indigeni barattavano nelle fiere,  al mercato ambulante, tra mandriani, viaggiatori, modi di parlare diversi. Inhangatu negli scambi. Che lingua parlavamo? Chi era la Patria? Nel Secondo Impero è rappresentata dalla figura di una donna indigena. Tutta l'iconografia brasiliana dell'epoca era costruita su elementi indigeni. Basti ricordare la murza del manto imperiale, realizzata con piume di tucano dal becco nero, che, se posta sul capo, non è altro che un copricapo; i titoli nobiliari concessi da Pedro II, per la maggior parte, avevano nomi indigeni come Paranaguá, Aimoré, Muriaé, Araraquara, Bujuru, ecc.
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È naturale che il ragazzo Antônio abbia ritratto quell'universo in cui ha vissuto i suoi primi quattordici anni. Parlare dei popoli indigeni per lui non era esotico, era naturale, era ciò che vedevano i suoi occhi, era il paesaggio linguistico delle sue orecchie. La prima generazione di romantici brasiliani è nota per il suo indianismo nazionalista. Tale caratteristica è giustificata dalla cultura ufficiale come un'ambientazione del gesto romantico europeo che si proiettava nel passato, idealizzando il Medioevo. Mi sembra, tuttavia, che, a differenza dei suoi coetanei, Gonçalves Dias fosse più un indigenista che un indianista, lui stesso un meticcio (caboclo) figlio di una madre indigena e di un mercante portoghese. Lodare i popoli originari e interessarsi alle lingue originali era conoscenza di sé, a differenza di coloro che tematizzavano l'indiano nei loro uffici come una tendenza dell'epoca. La sua costellazione di interessi includeva il popolo brasiliano, il folklore, l'etnografia e la natura.

Andò in Portogallo presto, nel 1838, all'età di 15 anni. Nel 1840, all'età di 17 anni, si iscrisse al corso di Giurisprudenza a Coimbra. Nel 1845, all'età di 22 anni, tornò in Brasile e pubblicò Primeiros cantos, una raccolta che includeva la “Canção do exílio”. Successivamente fu nominato professore di Latino e Storia del Brasile al Colégio Pedro II, a Rio de Janeiro. Essendo lui un meticcio,  non poté sposare la sua amata, Ana Amélia, che incontrò nuovamente al suo ritorno in Europa, già sposata, nel 1854, e alla quale dedicò la poesia “Ainda uma vez-adeus”. Il 3 novembre 1864, all'età di 41 anni, indebolito dalla tubercolosi, fu l'unica vittima dell'affondamento della nave Ville Boulogne, sulla costa del Maranhão. Il destino gli impedì di ritornare, come supplica nei versi finali del Cantico dell’Esilio: “Dio non voglia che io muoia senza tornare là / Senza godere delle perfezioni / Che non trovo da queste parti / Senza che ancora veda la palma /Dove canta il sabià”.

La poesia risuona nei nostri testi sin dal XIX secolo. La sua voce risuona nei versi dei poeti e dei parolieri della nostra lirica in una dinamica che ricorda i galli che tessono il mattino nella poesia “Tecendo a Manhã”, di João Cabral de Melo Neto. È senza dubbio il poeta più parodiato e parafrasato della nostra lirica. Prima di fare un esempio, ricordo che il poeta, privilegiando la palma come albero nazionale, come rappresentazione della brasilianità, lo fa con grande maestria e in sintonia con il suo tempo. L'Iracema de Alencar ha intagli di palma. La nostra terra è Pindorama.

Le palme e gli alberi di cocco sono alberi della stessa famiglia (Arecaceae), che comprende circa 205 generi e 2.500 specie. In Brasile sono segnalate più di 250 specie di palme. Più della metà di esse si trovano in Amazzonia, mentre il resto è distribuito in tutte le regioni del Paese. Si adattano alle condizioni climatiche semidesertiche e temperate, e soprattutto al clima equatoriale caldo e umido, nonché a diversi tipi di terreno, da quelli poveri di nutrienti e acidi a quelli fradici, come informa l'INEA. Gli alberi di cocco furono importati dall'Asia a metà del XVI secolo e qui si adattarono come se fossero autoctoni. Nell’immaginario universale, sono alberi associati ai tropici, al caldo, ai paesaggi solari. Sono loro che ballano al ritmo di samba con Zé Carioca, il sabià dei cartoni animati Disney. Alla loro ombra, potrete rilassarvi e meditare nella “zona amaca”, come direbbe Guimarães Rosa. Vale la pena notare che, in modo molto semplicistico, dalle palme si estrae l'olio, si mangiano i gambi e, di alcune, anche i frutti, come ad esempio l'açaí, la juçara, il buriti e la palma da dattero. I frutti degli alberi di cocco vengono mangiati, ma non di tutte le specie. In comune, palme e alberi di cocco ci offrono la paglia, utilizzata in diversi modi, dal tetto al rivestimento del pavimento, materia prima per gli oggetti di vimini. Mi attengo ad una caratteristica che mi ha sempre incantato. Che siano singole o ripiegate, le foglie lasciano passare il sole per illuminare la vegetazione più bassa e fungere così da persiane. In altre parole, sono alberi generosi, aggregativi, democratici, conservano attributi che, certamente, Gonçalves Dias desiderava che componessero la formazione del carattere nazionale. Sono alberi la cui disposizione delle foglie ricorda un copricapo.

Foglie che danzano nel vento e le cui paglie cantano. Ciò che mi sorprende in Canção do Exílio è la dinamica del suo percorso attraverso diversi momenti, scuole e movimenti della lirica brasiliana. Quando rivisitiamo la presenza intertestuale della poesia, diventa evidente che non è una semplice presenza, è permanenza, costanza. Gonçalves Dias è più che altro un riferimento. Nella nostra breve indagine abbiamo osservato almeno due dozzine di intertestualità. Questo senza entrare troppo nei dettagli. Deve essercene un numero molte volte maggiore.

Egli intreccia la paglia nel cesto dei versi brasiliani. Senza ordine cronologico, limiterò questa dimostrazione a poeti consacrati. Il riverbero dei versi di Gonçalves Dias si irradia nel surrealismo di Murilo Mendes, professionista esule, diplomatico, che al posto delle palme pianta meli della California nei suoi versi, dove fa cantare, al posto del sabià, i gaturamos dal Venezuela: uccelli nelle cui piume incontriamo i colori della nostra bandiera. Murilo Mendes, oltre a confessare di essere “morto soffocato in terra straniera”, si lamenta: “Oh, vorrei poter succhiare una vera carambola e ascoltare un sabià con un certificato di età”. Oswald de Andrade sostituisce le palme con i campi di palme e fa gorgogliare il mare. Sebbene “palmares” sia scritto in minuscolo e, quindi, si riferisca ad un'estensione di terreno dove predominano le palme, in termini di suono ci riporta allo storico quilombo dove gli schiavi fuggitivi lottavano per la libertà.

Dalla sua terra, che Oswald precisa essere San Paolo, vuole tutto: “oro, amore e rose”. Il gaucho Mario Quintana, in Uma Canção, inizia la poesia, proprio come Gonçalves Dias, ma aggiunge dei puntini di sospensione alla fine del verso, e continua: “E invece di un semplice sabià, / Cantano uccelli invisibili / Nelle palme che non esistono". Senza il simbolo della brasilianità, non esiste l’esilio, ma qui, i versi finali lo confermano: “Terra ingrata, figlio ingrato, / Sotto i cieli della mia terra/ Canto il canto dell’esilio!”. In Carlos Drummond de Andrade troviamo due riferimenti. La prima in Europa, França e Bahia, poesia che appare in Alguma Poesia, raccolta pubblicata nel 1930. Il titolo della poesia fu poi parodiato, nel 1951, da Ascenso Ferreira, di Pernambuco, sotto il nome di Oropa, França e Baia. Nella poesia di Drummond, dopo un viaggio sentimentale in diversi paesi, la voce lirica arriva malinconica in Brasile e, nell'ultima strofa, si sfoga: “Basta! / I miei occhi brasiliani si chiudono nostalgici. / La mia bocca cerca la "Canzone dell'esilio" /Come faceva  veramente la "Canzone dell'esilio"? / Là! terra di palme / dove canta il sabià”. Ancora una volta Drummond ricorre a Gonçalves Dias in Nova Canção do Exílio, in cui utilizza il motto: “un sabià sulla palma, lontano” che si ripete in tutto il poema per invertire, nell'ultimo verso, l'ordine e il sostantivo distanza: “la palma, il sabià, la lontananza”.

Anche il fluminense Casimiro de Abreu, contemporaneo di Gonçalves Dias, un po' più giovane, e, come lui, poeta romantico e studente universitario in Portogallo, scrive la sua Canção do Exílio. Con gesti e comportamenti tipici del romanticismo e ispirandosi ai versi del suo conterraneo, grida a Dio di non lasciarlo morire giovane senza sentire il sabià nell'aranceto. La prima strofa è ripetuta in tutta la poesia come un ritornello e dice: “Se dovessi morire nel fiore dei miei anni / Mio Dio! Che non sia ora; / Voglio sentire nell'aranceto, nel pomeriggio, / Cantare il sabià!”.

Del Maranhão come Gonçalves Dias, Ferreira Gullar, non poteva non elogiare il suo connazionale e lo fa, in Nova Canção do Exílio, in modo del tutto originale: sostituisce il territorio della patria amata con il corpo della donna amata. Con ingegno e bellezza, apre la poesia con i seguenti versi: “La mia amata ha le palme / Dove cantano gli uccelli / e gli uccelli che là cinguettano / nidificano nei suoi seni”. Per chiudere questa mostra di otto intertestualità nell'ambito della lirica letteraria, chiedo l'aiuto e la benedizione del poeta che, nei nostri testi, ha fatto il ponte tra il verso letterario e la canzone, Vinícius de Moraes. Come Murilo Mendes, il primo poeta qui menzionato, Vinícius era un diplomatico. Molte volte durante il suo esilio professionale ha espresso la sua saudade sproporzionato per la sua patria. Pátria Minha è più di una poesia, è un lamento di saudade e una dichiarazione d'amore per il Brasile. Forse c'è di più, sono io che non so dare un nome all'intensità dell'amore del poeta nel cui cuore non entrava il semplice amore dei mortali, solo il fuoco devastante della passione. L'intensità della mancanza, del vuoto, della saudade è espressa in tutta la poesia. Dice il poeta nei versi iniziali: “La mia patria è come se non fosse, essa è intima / Dolcezza e voglia di piangere; un bambino addormentato / È la mia patria. Per questo in esilio / guardando mio figlio dormire / piango di nostalgia per la mia patria”. Nella strofa finale, Vinícius presenta il vernacolo con il neologismo creativo “avigrama”, per nominare il messaggio, il telegramma consegnato al destinatario da un uccello. I versi dicono: “Ora chiamerò la mia amica allodola / E le chiederò di chiedere all'usignolo del giorno / Di chiedere al sabià  / Di portarti presto questo avigrama:/ “Patria mia, saudades di chi ti ama...”.

Gonçalves Dias, quindi, è una voce che riecheggia nella nostra lirica fin dal XIX secolo. Si è già detto che le palme e gli alberi di cocco appartengono alla stessa famiglia, anche se hanno caratteristiche diverse e crescono in biomi diversi. Le palme da dattero, ad esempio, sono alberi sacri che prosperano nel terreno desertico. Il buriti è una palma ad alto fusto, diffusa nel Brasile centrale e nel sud della pianura amazzonica. Sono protagonisti nel paesaggio del Planalto Central, nei Gerais, dove circolano i personaggi di Guimarães Rosa. Gli alberi di cocco sono, senza dubbio, gli alberi nazionali del nostro canzoniere popolare. Non sembra quindi esagerato affermare che, spesso, in maniera sottile, si sente anche la voce di Gonçalves Dias travestita da albero di cocco. Altre volte il riferimento è diretto, come in Sabiá, di Tom Jobim e Chico Buarque: “Torno indietro / So che torno ancora / Era lì ed è ancora lì / Che sentirò cantare / Un sabià”.

È interessante notare che nei versi di Chico Buarque il protagonista è l'uccello e non la palma. Inoltre, si chiama al femminile “a sabiá”. La palma è menzionata solo nella seconda strofa e “non c’è più”. È all'ombra della sua non-esistenza che il poeta si sdraierà. In Pra Machucar meu Coração, (1943), di Ari Barroso, il sabià non appare più accompagnato dalla palma, ma dalla chitarra, rappresentazione altrettanto simbolica della nostra cultura, come unici elementi che “rimangono” di una relazione d'amore che cade a pezzi. Una relazione romantica che avviene e che finisce, ben diversa dalle relazioni d'amore del romanticismo, che sono platoniche, idealizzate, irrealizzate.

Come ho detto, non ho effettuato un’indagine approfondita sull’intertestualità di A Canção do Exílio nel nostro canzoniere, né si adatterebbe qui. Quello che cerco è la possibilità di leggere Gonçalves Dias, spostando l'attenzione sui sentimenti di brasilianità e di appartenenza che suscita in noi. Più di ogni altra cosa con l'augurio che non venga dimenticato quando, invece, si dovrebbe festeggiare il suo 200° anniversario.

Gonçalves Dias ci ha offerto una matrice così perenne, così potente che anche nel ritmo del funk si può sentire gridare: “La mia terra ha funkeiros / Dove canta l'MC / c'è axé e sertanejo / Non so perché sono qui".

Che dire degli alberi di cocco che scuotono le loro paglie  nel nostro tradizionale canzoniere popolare? Mi riferisco alla produzione musicale registrata su disco dall’industria fonografica e trasmessa via radio. Il canzoniere si affermò in Brasile a partire dagli anni '30, quando la radio divenne popolare e cessò di essere il club radiofonico dell'élite. Siamo, quindi, nel pieno dell’era Vargas, un momento di grandi turbolenze politiche e trasformazioni in tutti gli ambiti della vita nazionale. Il  Regime confluirà nell'Estado Novo (1937-1945). È in questo scenario che si consolida come manifestazione culturale una delle espressioni più vigorose della nostra cultura nell’allora capitale federale, Rio de Janeiro. Sto parlando della Scuola di Samba, dei Grêmios Ricreativi, provenienti dalle comunità povere del centro e della periferia della città. Va ricordato che il governo Vargas ha cooptato i sambisti con chiari obiettivi politici, per esempio quello di eliminare la figura del malandro come eroe del genere e sostituirlo con l'operaio nel rispetto delle nuove leggi sul lavoro; annullare l'idea che il samba sia una musica marginale, da favela, ed elevarla alla categoria del genere brasiliano per eccellenza. È quindi chiaro il motivo per cui le Scuole di Samba sono valorizzate.

Gonçalves Dias è citato nei versi cantati durante una delle prime sfilate alla Estação Primeira de Mangueira, nel 1935,precisamente nel samba di Carlos Cachaça dal titolo Homenagem. Era il momento in cui le associazioni popolari volevano essere viste come scuole. Niente di più naturale che onorare gli scrittori apparsi nelle antologie educative formali. Fatto questo, i poeti vengono citati nell'ordine in cui compaiono sulle pagine del libro: Castro Alves, Olavo Bilac e Gonçalves Dias. La stessa Mangueira, nel 1952, ebbe come “enredo” il poeta del Maranhão.

È in questo scenario che il samba verrà orchestrata per la prima volta, iniziando ad avere lo status di musica da salotto, dove signore trascinano i loro abiti di pizzo. Era il 1939, quando Aquarela do Brasil, di Ari Barroso, fu registrato con la voce di Francisco Alves, o Rei da Voz, orchestrato dal maestro Radamés Gnattali. Questo è il samba che gettò le basi per quella che divenne nota come esaltazione del samba. Forma grandiloquente, epica, piena di suoni e lodi alla patria. In Aquarela do Brasil, Ari Barroso usa la coda del suo pianoforte come tavolozza per dipingere sonoramente i colori nazionali. C'è “l'albero di cocco che dà noci di cocco, dove lego la mia amaca nelle notti limpide di luna”. Mi sembra chiaro che questo albero di cocco, di Ari Barroso, abbia lo stesso valore simbolico, la stessa rappresentazione della brasilianità delle palme gonçalviane.

È in questo stesso momento che il compositore, cantante e pittore Dorival Caymmi appare sulla scena musicale brasiliana. Ciò accade nell'anno della registrazione di Aquarela do Brasil, 1939, in cui la canzone viene presentata per la prima volta, così come Caymmi si esibisce per la prima volta in pubblico, nella capitale, nello spettacolo di beneficenza, Joujoux e Balangandãs .

È stato Caymmi a stabilire definitivamente, nelle sue canzoni “praieiras” ,  le radici dell'albero di cocco come massimo rappresentante della brasiliana nel nostro canzoniere e a fare di Bahia una sorta di Pasárgada della canzone popolare. Ho l'impressione che la nostra brasilianità danzi al sapore delle paglie delle palme o delle palme da cocco, e che, adesso, sia proprio il sabià a cantare nei versi di samba, cantando: Brasile, mio ​​Brasile, brasiliano.

Traduzione in italiano di Antonella Rita Roscilli

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Fred Góes: compositore, professore e dottore di Teoria da Literatura nella Facoltà di Lettere della UFRJ, ricercatore del CNPq (Consiglio Nazionale di Ricerca nel Brasile) 


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TEXTO EM PORTUGUÊS   (Testo in italiano)

O Bicentenário de Gonçalves Dias: meu Brasil brasileiro
por
Fred Góes


                                                 

No dia 10 de agosto de 2023, Gonçalves Dias completaria 200 anos de nascido. Parece que o Brasil não precisa lembrar desse poeta que modelou nosso rosto, fez germinar nossa identidade independente, nos deu pertencimento, nos ensinou a sentir saudade e orgulho de sermos brasileiros. Ultimamente, andamos com mais saudade que orgulho. Isso é péssimo. É, portanto, hora propícia para repensarmos quem somos 200 anos depois, perguntarmo-nos: quantas são as nossas caras? Não é preciso nos fantasiarmos de bandeira. Inclusive, porque fantasias pressupõem diversidade e criatividade individual.

Tudo igual é para grupo, bloco ou ala carnavalesca, o contrário disto chama-se uniforme, farda. Aí, só vale quando é O time. Todos, o mesmo.  Somos diversos neste país maior que nossa medida. Um Continente. Uma imensa redundância, impossível não recorrer a ela, um continente. Somos os muitos dos tantos em Pindorama. Nossos olhos não chegam a vislumbrar a distância do longe, onde o céu encontra a terra e a terra encontra o mar, onde a linha do horizonte passa abaixo da cintura do equador. A floresta, a maior do mundo, onde a imensidão encontra o tamanho da desmesura. Quem somos nós?

É quase impossível falar do Brasil sem ufanar ou ufanear.  É difícil ser brasileiro, é muito difícil porque a nossa singularidade é plural. Somos mestiços por excelência. O português que falamos nos revela, diz quem somos em múltiplos sotaques. Ufanar ou ufanear é ação que, em nossa língua, português do Brasil, ficou associada ao pensamento conservador ortodoxo, totalitário, sobretudo, no século XX, não sem razão. Prefiro libertar o verbo das amarras, entendendo-o no sentido de tornar (alguém) ou sentir-se orgulhoso ou envaidecido. Desprezo o sentido de “mostrar-se jactancioso ou presunçoso; vangloriar-se”. Eu me orgulho de pertencer ao Brasil emoldurado por Gonçalves Dias. Surpreende como ele é capaz de, com dois heptassílabos, duas redondilhas maiores, dar-nos pertencimento, fazermo-nos identificar como brasileiros. Com apenas um par de índices, uma árvore e um pássaro a cantar, ele como que inventa a brasilidade, e a terra de que sente saudade.

Minha terra tem palmeiras
onde canta o sabiá
As aves que aqui gorjeiam
não gorjeiam como lá

Gonçalves Dias nasceu em Caxias, no interior do Maranhão, mais próximo de Teresina que de São Luís, nos cafundós de um país que acabara de se tornar independente, no ano anterior.  Um país cuja identidade mal engatinhava. Tudo o que sabíamos de nós e do mundo era aquilo que o colonizador via e dizia. Não tínhamos voz, tampouco o espelho refletia a nossa cara.

A vida urbana se ensaiava precária no litoral. Na roça natal do poeta, indígenas faziam escambo na feira, no mercado de rua, entre tropeiros, viajantes, falares diversos. Inhangatu nas trocas. Que língua falávamos nós? Quem era a Pátria? No Segundo Império, é representada pela figura de uma índia. Toda a iconografia brasileira de então se constrói a partir de elementos indígenas. Basta lembrar a murça do manto imperial, confeccionada com penas de tucano de bico preto, que, se colocada na cabeça, nada mais é que um cocar; os títulos nobiliárquicos concedidos por Pedro II, em sua maioria, tinham nomes indígenas como Paranaguá, Aimoré, Muriaé, Araraquara, Bujuru, etc.

É natural que o menino Antônio retratasse aquele universo em que viveu seus primeiros quatorze anos. Falar dos povos originários não era exótico para ele, era natural, era o que seus olhos viam, era a paisagem linguística dos seus ouvidos.  A primeira geração dos românticos brasileiros é conhecida pelo indianismo nacionalista. Tal característica é justificada pela cultura oficial como uma aclimatação do gesto romântico europeu que se projetava no passado, idealizando o medievo. Parece-me, no entanto, que, diferente de seus pares, Gonçalves Dias era mais um indigenista do que um indianista, ele mesmo um mestiço (caboclo) filho de mãe de origem indígena com um comerciante português. Enaltecer os povos originários e interessar-se pelas línguas originais era saber de si, diverso dos que tematizavam o índio em seus gabinetes como tendência de época. Era de sua constelação de interesses a gente do Brasil, o folclore, a etnografia e a natureza.

Cedo foi para Portugal, em 1838, com 15 anos. Em 1840, aos 17, matricula-se no curso de Direito, em Coimbra. Em 1845, com 22, retorna ao Brasil e publica Primeiros cantos, coletânea que incluí a “Canção do exílio”. É nomeado, então, Professor de Latim e História do Brasil no Colégio Pedro II, no Rio de Janeiro. Por ser mestiço, não pode se casar com a amada, Ana Amélia, que reencontrará em seu retorno à Europa, já casada, em 1854, e a quem dedica o poema “Ainda uma vez-adeus”. Em 3 de novembro de 1864, aos 41 anos, debilitado pela tuberculose, foi a única vítima do naufrágio do navio Ville Boulogne, na costa maranhense. O destino impediu-o de voltar, como suplicara nos versos finais da Canção do Exílio: Não permita Deus que eu morra sem que eu volte para lá / Sem que desfrute os primores/ Que não encontro por cá/ Sem qu’inda aviste as palmeiras/Onde canta o sabiá”.

O poema reverbera em nossas letras desde o século XIX. Sua voz ecoa nos versos de poetas e letristas de nossa lírica numa dinâmica que lembra os galos que tecem a manhã no poema “Tecendo a Manhã”, de João Cabral de Melo Neto. É, inquestionavelmente, o poeta mais parodiado e parafraseado em nossa lírica. Antes de exemplificar, lembro que o poeta, ao privilegiar a palmeira como árvore nacional, como representação de brasilidade, o faz com grande perícia e sintonia com seu tempo. A Iracema de Alencar, tem talhe de palmeira. Nossa terra é Pindorama.

Palmeiras e coqueiros são árvores da mesma família (arecaceae), que abrange cerca de 205 gêneros e 2.500 espécies. No Brasil são relatadas mais de 250 espécies de palmeiras. Mais da metade delas ocorre na Amazônia, e o restante está distribuído por todas as regiões do país. Elas se adaptam a condições de clima semidesértico, temperado, e principalmente ao clima equatorial quente e úmido, bem como a diferentes tipos de solos, que vão desde os pobres em nutrientes, ácidos até os encharcados, como nos informa o INEA. Os coqueiros foram importados da Ásia, na metade do século XVI e aqui se adaptaram como se nativos fossem. São árvores associadas, no imaginário universal, aos trópicos, ao calor, às paisagens solares.

São elas que dançam ao ritmo do samba com Zé Carioca, o sabiá dos cartoons da Disney. À sombra delas se relaxa e se matuta no “range rede”, como diria Guimarães Rosa. Vale observar que, de maneira bastante simplista, das palmeiras se extraem óleos, comem-se os talos e, de algumas, os frutos, como do açaí, da juçara, do buriti e da tamareira, por exemplo. Dos coqueiros, comem-se os frutos, não de todas as espécies. Em comum, palmeiras e coqueiros nos oferecem as palhas, utilizadas de formas diversas, desde o telhado ao forro do chão, matéria prima da cestaria. Atenho-me a uma característica que sempre me encantou. Sejam as folhas singelas ou dobradas, deixam passar o sol para iluminar a vegetação mais baixa e, assim, funcionam como persianas. Em outras palavras, são árvores generosas, agregativas, democráticas, guardam atributos que, certamente, Gonçalves Dias desejava que compusessem a formação do caráter nacional. São árvores, cuja disposição das folhas, se assemelha a um cocar. Folhas que dançam com vento e cujas palhas cantam.

O que me surpreende em Canção do Exílio é a dinâmica de sua travessia por diferentes momentos, escolas e movimentos da lírica brasileira. Ao revisitarmos a presença intertextual do poema, fica evidente que não se trata de uma mera presença, é permanência, constância. Gonçalves Dias é mais que tudo referência. Em nosso breve levantamento, observamos, pelo menos, duas dezenas de intertextualidades. Isto sem grandes aprofundamentos. Deve haver um número muitas vezes maior.  Ele trama a palha do cesto dos versos brasileiros.   

Sem ordem cronológica, limito essa amostragem aos poetas consagrados.  A reverberação dos versos de Gonçalves Dias irradia no surrealismo de Murilo Mendes, exilado profissional, como diplomata, que, no lugar das palmeiras, planta em seus versos macieiras da Califórnia, onde põe a cantar, no lugar do sabiá, gaturamos da Venezuela. Pássaros em cuja plumagem encontram-se as cores de nossa bandeira. Murilo Mendes, além de confessar que “morre sufocado em terras estrangeiras”, lamenta: “Ai quem me dera chupar uma carambola de verdade e ouvir um sabiá com certidão de idade”. Já Oswald de Andrade substitui palmeiras por palmares e faz gorjear o mar. Ainda que “palmares” esteja grafado em minúscula e, portanto, referente a uma extensão de terra em que predominam palmeiras, sonoramente, remete-nos ao quilombo histórico em que escravizados fugidos lutaram pela liberdade. De sua terra, que Oswald deixa claro ser São Paulo, quer tudo: “ouro, amor e rosas”.

O gaúcho Mario Quintana, em Uma Canção, inicia o poema, tal qual Gonçalves Dias, mas acrescenta reticências no final do verso, e segue: “E em vez de um mero sabiá, /Cantam aves invisíveis/ Nas palmeiras que não há”. Sem o símbolo de brasilidade, o exílio não está lá fora, mas aqui, confirmam os versos finais: “Terra ingrata, ingrato filho, / Sob os céus da minha terra/ Eu canto a Canção do Exílio!”. Em Carlos Drummond de Andrade, encontramos duas referências. A primeira em Europa, França e Bahia, poema que consta de Alguma Poesia, coletânea publicada em 1930.

O poema terá o título parodiado, mais tarde, em 1951, pelo pernambucano Ascenso Ferreira, com o nome de Oropa, França e Bahia. No poema de Drummond, depois de uma viagem sentimental a diferentes países, a voz lírica desembarca saudosa no Brasil e, na última estrofe desabafa: “Chega! / Meus olhos brasileiros se fecham saudosos. / Minha boca procura a “Canção do Exílio” /Como era mesmo a “Canção do Exílio”? / Aí! terra que tem palmeiras / onde canta o sabiá”. Mais uma vez Drummond recorre a Gonçalves Dias em Nova Canção do Exílio, em que se vale do mote: “um sabiá na palmeira, longe” que se repete ao longo do poema para, no último verso, inverter a ordem e substantivar a distância: “a palmeira, o sabiá, o longe”.

O fluminense Casimiro de Abreu, contemporâneo de Gonçalves Dias, um pouco mais moço, e, como este, poeta romântico e estudante universitário em Portugal, escreve também a sua Canção do Exílio. Com gesto e comportamento próprios do romantismo e baseando-se nos versos de seu patrício, clama a Deus que não o deixe morrer jovem sem ouvir o sabiá no laranjal. A primeira estrofe se repete ao longo do poema como refrão e diz: “Se eu tenho de morrer na flor dos anos / Meu Deus! Não seja já; / Eu quero ouvir na laranjeira, à tarde, / Cantar o sabiá!”. Maranhense como Gonçalves Dias, Ferreira Gullar, não poderia se eximir de também louvar seu conterrâneo e o faz, em Nova Canção do Exílio, de maneira originalíssima: substitui o território da saudosa Pátria amada, pelo corpo da mulher amada. Com engenho e beleza, abre o poema com os seguintes versos: “Minha amada tem palmeiras / Onde cantam passarinhos / e as aves que ali gorjeiam / em seus seios fazem ninhos”.

Para encerrar esta mostra de oito intertextualidades no âmbito da lírica literária, peço o auxílio e a benção do poeta que em nossas letras fez a ponte entre a o verso literário e o da canção, Vinícius de Moraes. Assim como Murilo Mendes, o primeiro poeta aqui citado, Vinícius foi diplomata. Não foram poucas as vezes em que expressou sua saudade desmesurada da Pátria em seu exílio profissional.  Pátria Minha é mais que um poema, é um lamento de saudade e uma declaração de amor ao Brasil. Talvez seja mais que isto, eu é que não sei nomear a intensidade do amor do poeta em cujo coração não cabia o mero amor dos mortais, só o incêndio devastador da paixão.

A intensidade da falta, do vazio, da saudade se expressa ao longo do poema. Diz o poeta nos versos iniciais: “A minha pátria é como se não fosse, é intima / Doçura e vontade de chorar; uma criança dormindo / É minha pátria. Por isso, no exílio / Assistindo dormir meu filho / Choro de saudades de minha pátria.” Na estrofe final, Vinícius presenteia o vernáculo com o criativo neologismo “avigrama”, para nomear a mensagem, o telegrama entregue ao destinatário por uma ave. Dizem os versos: “Agora chamarei a amiga cotovia / E pedirei que peça ao rouxinol do dia / Que peça ao sabiá / Para levar-te presto este avigrama:/ “Pátria minha, saudades de quem te ama...”.

Gonçalves Dias, portanto, é uma voz que ecoa em nossa lírica desde o século XIX. Já foi dito que palmeiras e coqueiros são árvores da mesma família, ainda que apresentem características diversas e cresçam em biomas diferentes. As tamareiras são árvores sagradas que se desenvolvem em solo desértico, por exemplo. Já o buriti é uma palmeira alta, comum no Brasil central e no sul da planície amazônica. São elas protagonistas na paisagem do Planalto Central, nos Gerais, por onde circulam as personagens de Guimarães Rosa. Já os coqueiros são, inquestionavelmente, as árvores nacionais do nosso cancioneiro popular. Sendo assim, não me parece exagerado afirmar que, muitas vezes, de maneira dissimulada, travestida de coqueiro, também se ouve a voz de Gonçalves Dias.

Outras vezes, a referência é direta como em Sabiá, de Tom Jobim e Chico Buarque: “Vou voltar / Sei que ainda vou voltar/ Foi lá e é ainda é lá / Que eu hei de ouvir cantar /Uma sabiá”. Chama atenção que nos versos de Chico Buarque, o pássaro é o protagonista, e não a palmeira. Além disso, é nomeado no feminino, “a sabiá”. A palmeira só é mencionada na segunda estrofe e “já não há”. É à sombra de sua inexistência que o poeta vai se deitar. Em Pra Machucar meu coração, (1943), de Ari Barroso, o sabiá aparece acompanhado não mais da palmeira, mas do violão, representação igualmente simbólica de nossa cultura, como os únicos elementos que “restam” de uma relação amorosa que se desfaz. Relação romântica que se realiza e se esgota, bem diferente das relações amorosas do romantismo, platônicas, idealizadas, irrealizadas.

Como afirmei, não fiz um levantamento aprofundado da intertextualidade de A Canção do Exílio em nosso cancioneiro, tampouco caberia aqui. O que busco é uma possibilidade de leitura de Gonçalves Dias, direcionando o foco para os sentimentos de brasilidade e pertencimento que ele provoca em nós. Mais que tudo, trago o desejo de que não seja esquecido quando caberia se comemorar seus 200 anos.
Gonçalves Dias nos ofereceu matriz tão perene, tão potente que até no batidão do funk ele se faz ouvir aos berros: “Minha terra tem funkeiros/ Onde canta o MC/ tem axé e sertanejo/ Não sei por que “tô” aqui”.
E os coqueiros que balançam suas palhas em nosso cancioneiro popular tradicional? Refiro-me à produção musical registrada em disco pela indústria fonográfica e veiculada pelo rádio. Cancioneiro que se fixa, no Brasil, a partir da década de 1930, quando o rádio se populariza e deixa de ser o rádio-clube da elite. Estamos, então, em plena Era Vargas, momento de grande conturbação política e transformações em todas as áreas da vida nacional. Regime de exceção que deságua no Estado Novo (1937-1945).

É neste cenário que se consolida como manifestação cultural uma das mais vigorosas expressões da nossa cultura na então capital federal, o Rio de Janeiro. Falo da Escola de Samba, dos Grêmios Recreativos, oriundos das comunidades pobres centrais e periféricas da cidade. Cabe lembrar que o governo Vargas coopta os sambistas com claros objetivos políticos como destituir a figura do malandro como herói do gênero e substitui-lo pelo trabalhador em atendimento às novas leis trabalhistas; desfazer a ideia de que o samba é música marginal, de favela, e alçá-lo à categoria de “O” gênero brasileiro por excelência. Fica, portanto, clara a razão de se valorizarem as Escolas de Samba.

E lá está Gonçalves Dias citado nos versos de um dos primeiros desfiles da Estação Primeira de Mangueira, em 1935, samba de Carlos Cachaça, que tem por título Homenagem. Era o momento em que as agremiações populares desejavam ser vistas como escolas. Nada mais natural que homenagear os escritores que apareciam nas antologias do ensino formal. Assim é feito, os poetas são mencionados na ordem em que aparecem nas páginas do livro: Castro Alves, Olavo Bilac e Gonçalves Dias. A mesma Mangueira, em 1952, teve como enredo o poeta maranhense.

É nesse cenário que o samba será orquestrado pela primeira vez, passando a ter status de música de salão, onde Donas arrastam o vestido rendado. É o ano de 1939, quando ocorre a gravação de Aquarela do Brasil, de Ari Barroso, na voz de Francisco Alves, o Rei da Voz, orquestrada pelo maestro Radamés Gnattali. Este é o samba que cria as bases da forma que se tornou conhecida como samba exaltação. Forma grandiloquente, épica, farta em sonoridades e enaltecimentos à Pátria. Em Aquarela do Brasil, Ari Barroso usa a cauda de seu piano como uma paleta para pintar sonoramente as cores nacionais. Lá está “o coqueiro que dá coco, onde amarro a minha rede, nas noites claras de luar”. Parece-me claro que este coqueiro que dá coco, de Ari Barroso, tem o mesmo valor simbólico, a mesma representação de brasilidade que as palmeiras gonçalvianas.

É nesse mesmo momento que surge na cena musical brasileira, o compositor, cantor e pintor Dorival Caymmi. Isto acontece no ano da gravação de Aquarela do Brasil, 1939, em que a música é apresentada pela primeira vez, assim como Caymmi se apresenta pela primeira vez em público, na capital, no espetáculo beneficente, Joujoux e Balangandãs.

Caymmi foi o responsável por fincar, definitivamente, as raízes do coqueiro como o representante máximo de brasilidade em nosso cancioneiro em suas canções praieiras e fazer da Bahia uma espécie de Pasárgada da canção popular. Fica-me a impressão de que a nossa brasilidade dança ao sabor das palhas das palmeiras ou dos coqueiros, e que, agora, é o próprio sabiá quem gorjeia nos versos do samba, a cantar: Brasil, meu Brasil, brasileiro.


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Fred Góes: compositor, Prof. Dr. de Teoria da Literatura da Faculdade de Letras da UFRJ, pesquisador do CNPq (Conselho Nacional de Pesquisa).